Tozzi e Siena. Simonetta Losi, nel suo "Leggere Tozzi, un piacere che spaventa" (primamedia editore) non propone una ricostruzione biografica degli anni senesi di Tozzi, ma descrive come, per lei ragazza, leggere questo autore ha significato acuire il proprio sguardo sulla città e, insieme, trovare una chiave per entrare nel mondo interiore dello scrittore, ferito per sempre dalla vita familiare e dall’ambiente cittadino: “la sua sensibilità – dice – raggiunge le nostre zone d’ombra, le illumina e le mette a nudo”. Credo che sia questo il “di più” che, rispetto al comune lettore, molti senesi dicono di avvertire, sia che abbiano memorie dirette della Siena di una volta, sia che ne abbiano un ricordo ravvivato da altri. Non è facile tornare con la mente a quella Siena, oggi apparentemente svanita: sarà questo uno dei motivi che rendono la lettura di Tozzi ancora poco gradita nella sua città? Potrebbe esserci, nella reazione quasi di fastidio, anche l’impulso a dimenticare aspetti dolorosi della realtà. Già negli anni ’30 Paolo Cesarini parlò del “disconoscimento più completo dell’opera tozziana nella sua città natia” (“La impopolarità di Tozzi”, Corriere del Tirreno, Livorno 21 agosto 1931). Pare che fosse allora molto comune sentir giudicare Tozzi in modo sprezzante in quanto si diceva che fosse stato “un uomo non fermo, una banderuola” in politica. Si sa che i suoi atteggiamenti, il suo carattere suscitavano pettegolezzi e dicerie, mentre da parte di Tozzi c’era – come ha osservato Roberto Barzanti – “un… confessato senso di estraneità rispetto ad un universo urbano avvertito come un intrico compatto di rancori, odi, miserie, disfatte” (“Senso ed immagine della città in Federigo Tozzi”, Bull. Senese di Storia Patria, 1983, p.269).
Le testimonianze di alcuni contemporanei hanno ancora oggi un sapore di verità. Borgese, rievocandone la prima gioventù a pochi mesi dalla morte, scrisse: “I coetanei che lo conobbero in quel tempo quasi mai gli furono benevoli. Era scontroso e senza grazia; la sua intelligenza, che si divincolava con cautela contadina dalle pastoie fra le quali in una casa troppo umile era nata, pareva invece sorda e cieca; e il suo cuore, ch’era chiuso per paura e per tenerezza, pareva cattivo. Da un rozzo ceppo popolano era venuto un virgulto malato ed ogni aria lo feriva”. Dopo la morte della madre “s’ingolfò sempre più nella solitudine, e la sua adolescenza fu deserta…Tutto quello che vedeva e sentiva lo piagava. Perciò si ricordava di tutto, quasi che ogni sensazione gli fosse rimasta infissa come un chiodo nella carne viva… Non meno del padre e della madre poté su lui la città nativa. Siena, triste di torri e d’archi acuti in mezzo alla campagna che già quasi s’adagia presaga della solitaria Maremma, ha un suo Medio Evo sepolto vivo nella storia moderna” (“La vita di Federigo Tozzi”, La Lettura, 1 maggio 1920, p. 334). Uno dei rari coetanei che gli furono amici, il pittore Umberto Giunti che nel 1903 lo accompagnò nella visita alle miniere di Boccheggiano, e gli parlava con entusiasmo delle sue scoperte nei segreti delle antiche tempere, provava per lui un’ammirazione mista a timore: “In quel tempo non ubbidivamo a nessuna disciplina, eravamo liberi di fare tutto quanto ci pareva. Non scuole, non impiego…Lo trovavo quasi sempre cupo, immalinconito. Mi parlava di sua madre morta, con tanto accoramento che mi faceva piangere, e della società e di tutto quanto allora formava ordine di autorità, e mi diceva il suo disprezzo per tutto questo. A volte aveva dei fremiti di misticismo. Confesso che non sempre lo capivo, sebbene sentissi che aumentava quell’attrazione verso di lui mista a timore” (“Ricordo di Federigo Tozzi”, L’Orto, N.3 aprile 1938, riprodotto in: Umberto Giunti pittore di quadri antichi, Contrada della Lupa, 1999). Sembra, in effetti, che in certi momenti della sua gioventù il futuro scrittore si sia sentito vicino alla follia.
Non era il solo a vivere in un clima di ostilità. Lo scultore geniale e ribelle Patrizio Fracassi ci ha lasciato – ventenne – amare confessioni sulla sordità incontrate a Siena nella sua lotta disperata contro l’accademia e l’opportunismo: l’artista autentico “bisogna che sopporti le beffe e gli insulti dei propri concittadini” e, quasi anticipando la sua tragica fine – diceva – a lui ”la società non riserba che il suicidio” (da La Diana, fasc.I, 1927, a cura di Piero Misciattelli). Fracassi aveva frequentato come Tozzi i circoli socialisti. A dieci anni dal suicidio di Patrizio, nell’agosto del 1913, Tozzi ricordò con veemenza su “La Vedetta Senese” e “La Gazzetta di Siena” che le sue belle sculture erano state dimenticate e andavano a pezzi: “Sembra perfino impossibile che la sua opera annunciata con un tumulto di genialità non desti nessun interesse…”. Nel 1927 il figlio di Fracassi, Ferruccio, su una copia de La Diana regalata alla vedova di Tozzi, Emma, scrisse una dedica: “Ricordando Federigo Tozzi che, solo, fra l’ostilità e l’indifferenza di Siena, affrontò per primo la battaglia per l’arte di mio Padre”. Non bisogna tuttavia dimenticare che c’era, per Tozzi, un altro mondo da scoprire fuori dalla città murata: “da quell’ambiente che gli è nemico vorrebbe evadere…nel podere di Castagneto, oltre il Palazzo dei Diavoli…presso una pianta di ciliegio….da ragazzo, si buttava in terra per sentire, nei primi tepori di marzo, la primavera” (Orio Vergani [Polonio], “Tracce d’una vita d’artista”, Fiera Letteraria, 27 marzo 1927). Cresciuto fra mura anguste trovava a Castagneto, una campagna dove gli pareva che il senso dell’infinito si distendesse sopra i prati, laggiù oltre la Montagnola. Quasi con fastidio verso l’ambiente di cui non sopportava le convenzioni e le amicizie tradite, scrisse a un’amica (lettera riprodotta in Solaria, maggio-giugno 1930): “Ma che ci fo qui a Siena?”, affermando subito dopo di voler cantare, prima di andarsene, la bellezza antica della città.
Nei sei anni poi trascorsi a Roma prima della morte, sarebbe tornato a scavare nella miniera di percezioni e visioni lasciate dentro di lui da Siena. Per ritrovare qualcosa delle sensazioni senesi, frequentava la campagna romana, che tuttavia trovava immersa nel silenzio della natura e degli uomini. In Toscana è diverso – dice nella novella “Nevrastenia” – perché lì si incontra “gente che ti capisce subito da sé, alla quale tu non ti puoi nascondere”. “E se non puoi parlare a nessuno, c’è la campagna che…ti sopraffà con la sua bellezza completa; dove tu vedi che perfino gli ulivi e i cipressi si rassomigliano a forza di stare insieme; dove ti pare che i muri delle case ne sappiano più di te. Un uomo scamiciato che ti guarda, fermo con la zappa in mano, ti fa guardare anche dal suo orto e dalle sue siepi. E la curiosità dei suoi occhi, che tu senti più acuta di tutti gli altri istinti, ti fa chinare la testa. Quell’uomo ti conosce e ti riconosce immediatamente…”. Per le strade di Siena la minaccia presentita nelle mura, nel volto o nel gesto di una persona poteva essere terrificante, ma restava pur sempre possibile, per Tozzi, il riconoscersi con quella gente per aver vissuto insieme in questa, e non in altra terra.
Introduzione curata da Silvia Tozzi all'eBook "Leggere Federico Tozzi. Un piacere che spaventa"